Storia – Testimonianza al Collegio S. Caterina

 
Tra le mura di questo Collegio è avvenuto il cambiamento più importante della mia vita.
Ricordo perfettamente il pomeriggio dell’estate 1983 in cui, sulla spiaggia marchigiana dove svogliatamente trascorrevo gli ultimi giorni di mare coi miei, alla domanda: – Allora che cosa vuoi fare l’anno prossimo?, risposi: – Voglio andare fuori Brescia a studiare. Voglio iscrivermi a Lettere Classiche.

Volevo davvero andare fuori casa, uscire dalle pastoie in cui mi trovavo. Finalmente libera!

Con tutta la famiglia siamo venuti in questa città a fine estate, a vedere. Niente di entusiasmante, la città era deserta. Tant’è, iniziò la procedura per informarsi sui Collegi; io naturalmente volevo il Cardano o simili, mio padre puntò sul S. Caterina: è stata una delle pochissime volte in cui ho visto mio padre deciso e mi sono inconsciamente abbandonata a questa sua insolita forza.
L’incontro con la rettrice, Iuccia Sairani, fu breve: mi disse che era un ambiente sereno, che c’era la messa al mercoledì, che si poteva studiare con tranquillità. Io pensavo: – Oddio, la messa, no. E che m’importa dell’ambiente sereno. Riuscii ad ottenere di far visita anche al Castiglioni e decisi di iscrivermi all’esame di ammissione per entrambi.
Non so per quale frenesia strana, pur non desiderando affatto vincere il concorso nel collegio cattolico, affrontai quello studio con la preoccupazione (oggettiva) che non sarei mai riuscita a prepararmi su quanto i programmi chiedevano: praticamente tutto!
L’esame scritto andò molto bene, l’orale meno. Al Castiglioni invece il colloquio fu più formale e si fermò su quello che mi avevano domandato all’esame di “maturità” (che non ricordavo nemmeno più…).
Di ritorno da una visita a Lugano, mio padre me lo disse in macchina: ero arrivata prima al concorso del S. Caterina. Prima? Come?
Fu l’inizio. L’inizio di una serie di coincidenze che mi fecero poi – a tessere accostate – capire che c’era qualcosa in più, qualcosa che dovevo interpretare.
I primi mesi di vita qui furono duri, e duri è ancora poco. Arrivai con una mia compagna di Brescia qualche giorno prima dell’inizio dell’anno accademico: nebbia e basta. Tornammo da una pizza scialba con i capelli tutti bagnati anche se non pioveva. La camera era priva di vita, il copriletto a righe arancio e qualcosa era sintetico, c’era odore di zolfo dappertutto. A lezione mi sentivo uno zombi, percepivo le parole dei professori ma non le catturavo.
Ero scappata da casa, sperando di tuffarmi nella mia solitudine, e ora la solitudine chiedeva il suo conto. Mi illudevo di difendermi dalle compagne chiudendomi in un mio mondo, fatto di scrittura rapsodica e palliativi. Di rabbia (ricordo che avevo assegnato alle ragazze dei soprannomi che usavo nel mio diario, quasi con disprezzo, con invidia).
Poi la crisi, la paura degli esami che mi sembravano impossibili da superare, i fantasmi del passato che incombevano, mi portarono sull’orlo di una disperazione che non potevo condividere con nessuno. Nessuno eccetto una persona: “la rossa” si chiamava nel mio gergo. Mariagrazia Antonioli. Una ragazza mia compagna di corso, iscritta a medicina: già durante i giorni dell’esame di ammissione mi si era accostata una volta chiedendomi come stai? I suoi capelli rossi non mi piacevano, ma lei aveva la capacità di accogliere tutte noi, sempre, anche se c’era da studiare. Sembrava rincorrere altri ideali che lo studio, qualcosa che stava più in alto, oltre i fogli dei libri.
E’ da lei che sono andata una notte di insonnia, alle due forse. E’ stata lei che, di fronte all’impotenza che le mie parole suscitavano, ha pronunciato le parole della mia rinascita. Il mio dolore non scaturiva da paure contingenti (lo studio, l’ambiente nuovo) ma da un assioma inchiodato sul fondo della mia anima: nessuno mi ama. Si era inchiodato lì chissà quando, nel primo mondo. Tre parole contro le quali Mariagrazia ne ha lanciate altre tre. Dio ti ama.
Feci una smorfia di rifiuto, di sarcasmo. Quel Dio, che da bambina avevo conosciuto e che mi aveva accompagnato attraverso i meandri della mia infanzia; quel Dio che da adolescente mi aveva cercato e che io rifiutavo perché: sì, esiste ma non si occupa di noi… ora mi si riformulava dentro con parole straniere, e mi cercava ancora.
Le messe: non so perché ci sono andata. Pensavo che avrebbero notato la mia assenza e non volevo grane. Non facevo i conti però con don Adriano Migliavacca, che diceva cose come se parlasse a me, come se in quella chiesa ci fossi solo io e lui sapesse tutto.
E’ stato l’inizio. Presi a cambiare: le ragazze mi vedevano sorridere, fare salti nei corridoi. Cambiare il mio abbigliamento, il modo di tenere i capelli… Con la Meri, studentessa di odontoiatria, iniziammo a suonare la chitarra a messa: il mercoledì messa, pizza e torta! C’era un clima di festa.
Iniziai a studiare a maggio, molto tardi, ma gli esami cominciarono bene.
A fianco di queste mutazioni interne al Collegio, sono poi comparse altre realtà, ho preso a frequentare un gruppo di preghiera sulla Bibbia e ho conosciuto le suore attraverso delle settimane itineranti in montagna.
L’estate successiva agli eventi che ho narrato, durante una di queste settimane, ho raccolto i pezzi di quanto era accaduto, li ho messi insieme, arrivando alla conclusione che non potevano essere casuali. Il primo posto in Collegio, lo sguardo e le parole di Mariagrazia, le prediche di don Adriano, la stessa sofferenza vissuta mi sono sembrate “volute” da una volontà più forte del mio smarrimento e della mia rabbiosa solitudine. C’era Qualcuno che non si era arreso al mio naufragio. In una lettera mio zio, che pur facendo il monaco nel deserto della Giordania sembra sapere sempre tutto di me, mi scriveva, proprio in quell’anno: tu non Lo hai mai lasciato, non Lo hai mai dimenticato… solo hai bisogno di tornare ad appoggiare le labbra sulle sue parole, sui salmi, sul Vangelo…
La scelta di fare il salto successivo è venuta dopo: cioè dedicare tutta la vita a questo rapporto con Dio e al desiderio di farlo conoscere agli altri così come mi si era manifestato (un Dio molto buono, molto innamorato delle sue creature, tutte…). Una scelta strana per me: non mi sentivo affatto adatta, e non lo sono tuttora.
Sta di fatto che – dopo la laurea – ho ricevuto una borsa di studio per un anno per continuare il lavoro della tesi, poi sono rientrata a Brescia e nel frattempo ho iniziato a insegnare. L’anno successivo, nell’89, sono entrata nella comunità. Ho continuato a insegnare lettere nelle scuole superiori statali e ora vivo e lavoro in un Centro di Spiritualità a Brescia*. Sento che questo è il luogo per ringraziare: ho già citato alcuni nomi (cui devo almeno aggiungere Carla Vavassori), ma dovrei nominare tutte le altre persone che qui ho incrociato e incontrato.    

 

Pavia, Domenica 6 maggio 2012

sr Francesca Bernacchia