Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti.
Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro.
Mi chiamo Umberto Umberto. Quando accadde il fatto soccombevo arditamente al trionfo dell’adolescenza. A detta di chi mi conobbe, non di chi mi vede ora, lettore, smagrito in questa cella, coi primi segni di una barba profetica che mi indurisce le gote, a detta di chi mi conobbe allora ero un efebo valente, con quell’ombra di malinconia che penso di dovere ai cromosomi meridionali di un ascendente calabro.
(…) Amavo, amico lettore, e con la follia dei miei anni solerti, amavo coloro che tu chiameresti con svagato torpore “le vecchie”. Desideravo dal più profondo intrico delle mie imberbi fibre quelle creature già segnate dai rigori di una età implacabile, piegate dal ritmo fatale degli ottant’anni, mimate atrocemente dal fantasma desiderabile della senescenza. Per designare costoro, sconosciute ai più, dimenticate dalla indifferenza lubrica degli abituali usagers di friulane sode e venticinquenni, adoprerò, lettore, oppresso anche in questo dai rigurgiti di un’impetuosa sapienza che mi atterrisce ogni gesto di innocenza che mai tenti – un termine che non dispero esatto: parchette.
(…) Potrò mai parteciparti, amico lettore, il languore disperato di quelle fuggevoli prede degli occhi, il fremito spasmodico di certi contatti labilissimi, un colpo di gomito nella ressa del tram (“Scusi signora, vuole sedersi?” Oh, satanico amico, come osavi raccogliere l’umido sguardo di riconoscenza e il “Grazie, buon giovine”, tu che avresti voluto inscenare lì stesso la tua bacchica commedia del possesso?), lo sfiorare un ginocchio venerando strisciando, col tuo polpaccio, tra due file di sedie nella solitudine pomeridiana di un cinema rionale, lo stringere della tenerezza trattenuta – sporadico momento del più estremo contatto! – il braccio ossuto di una vegliarda che aiutavo ad attraversare il semaforo con aria contrita di giovane esploratore!
U. Eco, Diario minimo, 1963